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Sul dibattito sviluppato dall’ Ass. Art. 5

di Ranuccio Sodi

A seguito dei dibattiti nell’incontro di Milano del 23 settembre e a quello romano del 1° ottobre scorso, offro alcuni miei spunti di riflessione:

–              La diffusione di contenuti si è spostata progressivamente dall’on-air al web; mentre il primo sistema (trasmissione FM attraverso ripetitori a terra, per radio e tv) è facilmente controllabile e sanzionabile in caso di disallineamento dei contenuti offerti dai criteri legislativi di un paese, la seconda modalità necessita di strumenti più complessi per la verifica, nonché per l’eventuale blocco o sanzionamento. La recente notizia della discussione tra Elon Mask e la nostra Presidente del Consiglio per poter offrire l’allacciamento alla rete Starlink a un prezzo estremamente competitivo rischia di creare una mostruosità in campo radiotelevisivo o comunque nell’offerta di programmi e news: non sarebbe più possibile un controllo nazionale sui contenuti, che non potrebbero più essere verificati o sanzionati, diventando soggetti economici non di diritto italiano o europeo. Lo stesso distributore digitale (Starlink) potrebbe operare censure o utilizzare algoritmi di diffusione dei contenuti non conformi al Freedom Act.

–              La riflessione sul significato di ‘fornitore di servizio pubblico’ deve forzatamente diventare molto ampia, nel momento in cui altri storici ‘servizi pubblici’ sembrano voler abbandonare i tradizionali ruoli, per motivazioni economiche: ad esempio, l’AD di Poste Italiane ha recentemente dichiarato che nel futuro dell’azienda potrebbe non rientrare la consegna di corrispondenza e raccomandate, cosa peraltro già successa in Inghilterra. Questa constatazione ci spinge a allargare l’orizzonte delle proposte della nostra associazione, per non rischiare di offrire soluzioni velocemente superate dall’evoluzione dei media, o, peggio, economicamente insostenibili.

–              In questo senso: il modello aziendale dei nuovi content provider (da Netflix e Amazon Prime al gruppo Discovery) sono lontanissimi da quello delle TV generaliste, ovvero sono strutture agili, leggere, dedite soprattutto alla ideazione o alla selezione e acquisizione di contenuti, agli aspetti legali dei diritti, al marketing. Nessuna zavorra di studi televisivi, pochissimo o nessun personale cinetelevisivo in senso proprio: i cui costi sono considerati assolutamente improduttivi. Per la realizzazione dei format o dei soggetti, si rivolgono ai principali player del mercato, spesso in concorrenza tra loro.

–              La Rai, e poi Mediaset e La7, (ovvero le generaliste, ammesso che quest’espressione abbia ancora un senso esclusivo), hanno sviluppato un modello produttivo complesso, che copre ogni possibile esigenza tecnica: dalla troupe ENG per le news, ai grandi van multicamera, editing, sonorizzazione, trucco, costumi, studi televisivi, post-produzione, impianti fissi, eccetera. Grandi professionalità e storie gloriose… che però sono gioielli di famiglia estremamente costosi da mantenere (come lo erano le orchestre, le prime a essere falcidiate), e poco duttili o fuori mercato: dal punto di vista dei costi e dei servizi offerti e/o effettivamente svolti. Ogni volta che si è fatto un accurato confronto tra costi interni Rai e outsourcing, il risultato è stato impietoso.

–              Bisognerebbe anche uscire da alcuni triti (e tristi) luoghi comuni: “Un posto al sole” è sicuramente un successo dal punto di vista editoriale. Ma qualcuno ha mai fatto una vera analisi dei costi di quella serie? È servita a giustificare la sopravvivenza del centro di produzione di Napoli, ma dal punto di vista industriale quante risorse ha sottratto e continua a sottrarre all’azienda?? Quanto sarebbe costata / costerebbe la stessa serie appaltata a un soggetto esterno? Domande essenziali, quando i soldi della pubblicità scemano, il canone viene messo in discussione e (forse) ridotto, per poter pensare a un futuro del ‘soggetto pubblico’ solido finanziariamente e concentrato sul core business.

–              Ovvero, la Rai è stata anche un grande centro di collocamento, certamente su basi non selettive o meritocratiche, con stratificazioni irreversibili a ogni cambio di legislatura: dai direttori, ai dirigenti, ma perfino ai livelli di mansione più bassi. Questo ha enormemente appesantito la sua struttura, complicandone la mission anche dal punto di vista della gestione dei contenuti, del rispetto della pluralità di opinioni, eccetera: perché si è trasformata soprattutto in un’azienda che difende sé stessa; in cui la gran parte delle entrate (canone + pubblicità) serve a mantenere in vita il carrozzone, poco a sperimentare contenuti e linguaggi, o proporre nuove idee di più ampio respiro. Occorre alleggerire questo elefante nella parte improduttiva, proprio per riportare il focus della sua attività, in maniera leggera e snella (e con possibili risorse fresche, liberate dalle gabelle autoimposte), su quello che è giustamente il primo punto del report del 1° ottobre: “L’editore pubblico deve padroneggiare il linguaggio e i problemi della creazione e realizzazione del prodotto”. Il resto non serve, crea perdite di bilancio, complica la gestione politica, impone mediazioni, crea intrecci e commistioni con interessi privati spesso inestricabili.

–              Questo vale in parte anche per il modello organizzativo e produttivo della parte news: quello più agile oggi è di Sky, che, assieme a giornalisti in redazione centrale, dispone di studi e personale tecnico per i suoi notiziari H24, solo in due sedi (Milano e Roma); il materiale per i TG è acquisito, oppure realizzato e ‘taylorizzato’ da una rete di collaboratori su scala nazionale, con service di ripresa ‘indigeni’. Garantire la qualità giornalistica periferica e il pluralismo informativo non passa attraverso sedi locali che sono piccoli e costosi potentati, e hanno replicato su piccola scala il modello Rai romano. 

–              In rete, si trova uno studio molto interessante (purtroppo del 2014) che confronta RAI e BBC, forse l’unica azienda paragonabile in termini dimensionali e di modello di servizio: è allegato. Avvalora la mia tesi: ovvero, gran parte delle entrate finanziarie servono a pagare i dirigenti (che in Rai sono ben il 4,9% dei dipendenti, in BBC il 3,3%); e, nota bene, gli stipendi medi Rai sono decisamente più alti di quelli BBC!

–              L’identità italiana moderna è grande debitrice alla Rai delle origini e di quel progetto di acculturazione televisiva: il vero patrimonio aziendale è quello, e la giustificazione del pagamento del canone, almeno per me, è il mantenimento di una fiamma accesa alla nostra vera memoria condivisa. Ma attenzione, bisognerebbe scindere completamente l’aspetto storico-identitario delle Teche, dal continuo e spesso insulso saccheggio operato semplicemente per ridurre il costo di produzione di alcuni programmi di repertorio low budget. L’abuso di queste modalità, per traslato, erode la memoria stessa e i suoi valori, svalorizzandoli e usurandoli. Addirittura, penso che le Teche dovrebbero essere scisse societariamente dalla Rai e gestite in maniera completamente autonoma: togliendo ad esempio la mole di pubblicità che è imposta per vedere qualche vecchio spezzone.

–              Concludendo: per assurdo, si potrebbe ipotizzare che il miglior Freedom Act sia un potente algoritmo che controlla i contenuti offerti nella diffusione via etere o sul web, garantendo un pluralismo che rispetti i valori costituzionali; un servizio smaterializzato, che seleziona e sceglie on line. Cioè, fuori dalla demonstratio ad absurdum, la funzione di pubblica utilità, di cui parla il REGOLAMENTO (UE) 2024/1083 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO dell’11 aprile 2024, non è meccanicamente legata agli attuali modelli aziendali e produttivi come la Rai. Quello che però è certo è che un’azienda bolsa e oberata di costi fissi improduttivi, difficilmente potrà sopravvivere alla progressiva erosione delle entrate, senza snellirsi e liberarsi dalla zavorra: rendendosi incapace di affrontare nuove sfide, come quelle di mercato o quelle implicite del Freedom Act. Le proposte dell’associazione Art. 5 devono tener presente queste necessità ormai impellenti, per poter dare concretezza e sostenibilità almeno di medio periodo a un cambiamento imminente e obbligato.

Fabio Belli

Il contributo di Ranuccio, che non conosco, è stimolante forse anche al di là delle intenzioni.

In modo sintetico, i temi da approfondire sono due:

1. Il primo apparentemente quasi ovvio in realtà ovvio non è. Le aziende che vincono sono quelle flessibili e liquide dove Perimetri industriali, organizzazione, profili delle risorse umane, processi aziendali sono in perenne mutamento e divenire e dove l’inerzia è un concetto bandito e combattuto. Dio sa quanto Rai sia affetta dalla sindrome inerziale con la pervicace  coazione a riproporre la conservazione e la demonizzazione di tutto ciò che innovazione.

2. Il secondo è sotteso e non esplicito. Riguarda la visione della governance di un sistema industriale. La sinistra ha abdicato e ha aderito acriticamente con l’entusiasmo dei neofiti al mercato tout court. 

Qui le questioni intrecciate sono due: 

a) Europa: è necessario un soggetto che abbia una dimensione economica e un peso  adeguati nello scenario geopolitico. 

b) controllo dei settori strategici: la regolamentazione è geneticamente debole non funziona ed è destinata a soccombere contro il gigantismo delle corporation. 

È  necessario a tutela dei cittadini un intervento diretto appunto a livello europeo nei settori strategici (certo l’A.I. ma per esempio pensa al settore farmaceutico) Una sorta di IRI europeo (smantellato insieme al nostro sistema industriale)

Bisognerebbe seguire il pensiero profetico del mio indimenticato maestro Federico Caffè il piccolo grande uomo.

Ps il copy potrebbe essere: 

Non devi stare dappertutto (è costoso come dice Ranuccio) ma è obbligatorio il presidio diretto là dove si prendono le decisioni.

Luciano Flussi

Parto da una domanda retorica: chi può non essere d’accordo con Sodi (che neanch’io conosco) e con Fabio (che saluto) quando osservano che un’Azienda obsoleta come la Rai, oberata di costi fissi e improduttivi, sottoposta ad una continua erosione delle entrate, avrà serie difficoltà a sopravvivere se non riuscirà a snellirsi, ridefinendo il proprio perimetro?
E come può confrontarsi con i nuovi content provider che, invece, hanno adottato modelli stratosfericamente più flessibili, anzi liquidi?
Il punto però è che la storia non si cancella e ristrutturare un edificio rinascimentale fatiscente nel centro storico di una grande città risulta molto più complicato che costruirne uno nuovo, della stessa volumetria, ma collocato in una zona industriale periferica. Sono due entità fisiche simili per certi versi, ma non confrontabili per altri.
Quindi il dubbio non è se riplasmare la Rai, ma come fare per riuscirci.
Tutte le emittenti che hanno alle spalle un briciolo di storia sono nate, e si sono sviluppate, col modello “all in house”. Questo non vale solo per Rai, vale anche per Mediaset e La7. Ma vale anche per emittenti molto più piccine che presentano rigidità addirittura superiori a quelle di alcuni comparti della vituperata Rai (Rai News 24, ad esempio, nacque a fine anni 90 con un modello estremamente flessibile frutto di un accordo – purtroppo rimasto un unicum – che vide allo stesso tavolo tutte le 6 OO.SS. del personale non giornalistico e l’Usigrai).
Tornando alla Rai, ha ragione Sodi quando dice che occorre sfatare luoghi comuni. Su Un Posto al Sole condivido le sue riflessioni di fondo, ma non quella che è servito a salvare il Centro di Produzione di Napoli (ha sicuramente incrementato l’indotto, ma anche il Centro di Produzione di Torino è sopravvissuto ugualmente pur avendo rifiutato – grazie alle Organizzazioni Sindacali – la lunga serialitá “gemella” di Un Posto al Sole che all’epoca era stata proposta e, anche più recentemente, ha rifiutato la produzione seriale de Il Paradiso delle Signore).
Però sono luoghi comuni anche alcuni degli argomenti sui quali si sofferma e che, a mio modo di vedere, andrebbero contestualizzati.
Sicuramente la Rai è percepita come un carrozzone, ma come potrebbe non esserlo un’Azienda che opera in un mercato altamente competitivo, dovendosi confrontare con competitors che non sono più solo gli altri (e più efficienti) Broadcaster, ma anche quelle che il nostro Luca Balestrieri definisce la Pattaforme-Mondo, dovendo però seguire procedure e modalità di gestione che sono quelle dei Ministeri e delle Asl.  A mio sommesso avviso, affianco al tema della governance, dobbiamo mettere sullo stesso piano quello della natura giuridica dell’azienda, che sono due facce della stessa medaglia.
Altrettanto sicuramente la Rai è stata un grande centro di collocamento, ma da quando si è sostanzialmente azzerato “l’organico ombra” rappresentato dai contratti a termine, il carrozzone è diventato più simile ad una barchetta, che certo resta esposta al vento della politica quando trasporta qualche conduttore, qualche autore, qualche collaboratore, ma i cui contratti (sicuramente ben pagati) non hanno il carattere della stabilità. Quando si parla di contratti stabili forse sarebbe corretto aggiungere che oramai da quasi 10 anni il reclutamento dall’esterno dei giornalisti avviene solo per concorso pubblico (con un rapporto assunti/partecipanti del 3%, quando prima di allora era 1-1 e il criterio di scelta era del tutto soggettivo). E quello che vale per i giornalisti vale molto più per gli altri: l’ultima iniziativa di cui mi sono occupato prima di lasciare l’Azienda è stato il reclutamento di 300 giovani apprendisti (chiamati a sostituire nel tempo gli oltre 1.000 tecnici e programmisti assunti a fine anni ‘70 per la Terza Rete) scelti tra 19 mila aspiranti: 300 ragazzi che sono entrati in Rai grazie al propio talento, senza dover ringraziare né padri, né padrini. I dirigenti sono tanti? Forse si, ma se secondo dati vecchi di 10 anni erano il 4,9% dei dipendenti (i conti non tornano anche sommando i capi redattore, ma lasciamo perdere) contro il 3,3% della BBC, occorrerebbe anche citare che – in quel periodo – l’organico del Gruppo Rai era di 13.158 unità, mentre quello di BBC Group era di 22.399 (fonte Il Fatto Quotidiano on line 7 giugno 2014). E, in questo caso, il peso del denominatore non è solo una variabile della matematica.
Parlando di Dirigenti non può sfuggire che, al di là degli avanzamenti interni, ormai è impossibile pescare dal mercato. Gli ultimi due DG hanno avuto un contratto a termine e una retribuzione plafonata al tetto imposto con una norma speciale inserita in una legge che nulla a che vedere con la Rai. Un bene per certi aspetti (evita il marchettificio), ma non possiamo meravigliarci se poi in Rai non arriva un Marchionne (cito lui perché la Fiat l’ha senz’altro trasformata. Magari più a vantaggio degli azionisti che delle maestranze, ma è indubbio che l’abbia trasformata).
Confesso di non aver ben compreso l’idea di Sodi sulle Teche. Non entro nel merito e forse uno spin-off potrebbe essere una soluzione. Occorre però tener conto che le teche non sono solo suoni, immagini, catalogazione e diritti, ma sono anche supporti fisici, stoccati e movimentati con tecnologie industriali, che sono parte integrante del processo produttivo interno alla Rai, intrecciate a filo doppio con altre parti di tale processo produttivo.
Certo, la Rai è un’Azienda baricentrata su se stessa, con una struttura elefantiaca, che ripropone programmi sempre uguali, che non sperimenta linguaggi e contenuti, che non è in grado di competere con le nuove piattaforme.
Certo, la Rai ha bisogno di ridefinire il proprio perimetro, di snellire la propria organizzazione, di rinnovasi nelle teste, prima ancora che nei prodotti. Ma snellirsi, rinnovarsi, flessibilizzarsi, sono obiettivi non facili da individuare e ancor molto meno facili da realizzare.

E qui introduco un altro punto di domanda. Quando, come spero, potremo avere un Servizio Pubblico davvero indipendente, riplasmare l’attuale Rai dovrà esser frutto di dibattito accademico come in fondo stiamo facendo noi, o questo dovrà essere compito e responsabilità da attribuire esclusivamente ai “malcapitati incauti” che saranno chiamati ad occuparsene?
Io francamente penso che la soluzione debba essere la seconda perché chi avrà responsabili di gestione – si auspica scelti per la loro vision e professionalità e non per l’appartenenza – debbano essere messi in condizione di poter sbagliare da soli (auspicabilmente poco) piuttosto che essere aiutati a farlo.
Perché questi malcapitati incauti non avranno davanti a sé una matita e un foglio bianco da cui partire ed iniziare a disegnare, ma dovranno fare i conti con le stratificazioni che si sono formate in un secolo di “malarai”, dovranno intraprendere azioni (molte), ognuna delle quali produrrà una variegata gamma di reazioni probabilmente più deflagranti delle azioni stesse: quella ad esempio dei dipendenti che vorranno difendere le proprie confort zone, quella dei Sindacati che considerano  le confort zone come tutela di diritti acquisiti, quella delle tante lobbies che hanno voce in capitolo, quella dei produttori di contenuti e degli agenti di spettacolo, quella dei titolari di format e diritti, quella degli appalti, insomma tutto quel mondo che, nella Rai e intorno alla Rai, gravita e spesso prospera.
O pensiamo che per riplasmare la Rai sia sufficiente seguire il metodo con cui Salini-Fuortes hanno introdotto l’organizzazione per generi? Qualche giorno fa ho letto un comunicato dell’Usigrai con cui, lamentando la crisi di Rai Tre,  chiede al nuovo CdA di mettere “… all’ordine del giorno la chiusura dell’esperienza fallimentare dei Generi” per tornare all’organizzazione per Reti. È una richiesta che personalmente condivido, ma forse sarebbe stato meglio accorgersene 5 anni fa, quando invece ci si accontentò della garanzia che non si sarebbe toccato  l’assetto delle Testate (che, invece, dovrebbe costituire il punto di partenza di ogni serio tentativo di razionalizzazione dell’organizzazione Rai)  e di portare a casa il riconoscimento del cosiddetto “giusto contratto” per i cripto-giornalisti che ha ulteriormente ingrossato la componente dei costi fissi.
Ma l’intangibilità dell’assetto delle Testate è valsa quanto la distruzione di Rai Tre? Perché  non ci voleva certo un genio per capire che con l’organizzazione a matrice si sarebbe persa l’identità dei canali e che questo avrebbe avuto risultati deflagranti soprattutto per Rai Tre. L’avevo capito perfino io.

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